Great Soeckled Bird Velvet Underground review recensione 2

THE Velvet Underground (MGM SE-4617)

di Miller Francis Jr.

dalla rivista “Great Speckled Bird” – 4 agosto 1969

Prendere o lasciare, non ho mai conosciuto nessuno che fosse indifferente ai Velvet Underground. O ti entusiasmano, o è la peggiore boiata che tu abbia mai sentito.

All’inizio facevano parte di un progetto di Andy Warhol chiamato The Exploding Plastic Inevitable (il loro primo album fu persino impreziosito da una copertina che raffigurava una banana di Warhol che poteva essere sbucciata fino a scoprire il rosa sottostante), i Velvet Underground sono oggi uno dei gruppi rock più solidi e tenacemente attivi del settore. Eppure non hanno mai ottenuto quel successo travolgente che molti talenti minori hanno dato per scontato. I Velvet sono quasi una band di “culto”, e questo è facile da comprendere dato il mondo chiuso ed esoterico da cui traggono la loro principale ispirazione. Un mondo caratterizzato da strade notturne di città (esiste la luce del giorno nel mondo dei V.U.?), da una sessualità deviata, da droghe pesanti, da violenza, dall’intero reame crepuscolare di valori di una cultura urbana sfinita e decadente.

The Velvet Underground & Nico (Verve V/V6-5008) attingeva a piene mani dall’ethos di Warhol che già conoscevamo attraverso film e libri – una specie di Chelsea Girls su cera, il suono rock più terrificante (e più originale) di sempre. Le droghe erano aghi e siringhe, il sesso era sia di velluto che di pelle e di dubbio genere, lo spaccio e l’attesa del pusher erano la routine quotidiana, e sotto tutto questo trasudava una cruda tenerezza che galleggiava in mezzo alla noia, alla violenza, alle urla e alla frenesia del mondo elettrico della gente di notte. Richard Goldstein lo descrisse come una “brutale serie di slanci atonali e feedback elettrici”. I testi combinano la sfrenatezza sadomasochista con immagini in libera associazione. Tutto il loro sound sembra essere il prodotto di un matrimonio clandestino tra Bob Dylan e il Marchese de Sade“. I veri apporti di questo primo album includevano una sana riproposizione del ritmo ipnotico e ripetitivo del rock and roll (i Velvet crearono la propria versione del vecchissimo filone presente in quasi tutto il primo rock, nato dal rhythm & blues e dal boogie woogie), un uso sperimentale dell’elettronica, un approccio consapevole alla crescente sottocultura degli stupefacenti, e un rifacimento dal fascino perverso dell’approccio dylaniano allo scrivere e parlare/cantare una canzone.

Il secondo disco dei Velvet Underground, White Light/White Heat (Verve V/V6-5046), fu un ulteriore ampliamento delle influenze originali – Dylan, l’approccio degli Stones al blues, Warhol, la cultura urbana beatnik-che sta diventando hippie. La bilancia pendeva ancora dalla parte delle canzoni di strada malate e ossessionate, degli spacciatori e delle amanti occasionali: “I’m searchin’ for my mainline/Said I couldn’t hit it sideways/Just like Sister Ray says/Yes, I’m searchin’ for my mainline.” Il suono è teso, tutti i sistemi in funzione, tutto ronza e pulsa attraverso un confuso miscuglio di droghe pesanti – un computer sotto metedrina. La musica come sballo.

L’uscita di The Velvet Underground (MGM SE-4617) indica una nuova strada nella direzione del filone Dylan più soft. I ritmi sono più lenti, il feedback stridente si è trasformato in tristi accordi elettrificati lasciati andare su una fiamma molto bassa; le voci sono pacate ed evocative, intime come possono esserlo delle voci registrate; le stesse canzoni sono per lo più canzoni d’amore e raccontano emozioni delicate, relazioni fragili. La metedrina diventa mescalina. Ci sono molti, molti punti alti in The Velvet Underground, e, in effetti, tutto il disco è un delicato, suadente apice. “Candy Says” dà inizio al disco con l’accento su quelle tristi chitarre smorzate e la voce placidamente innamorata; “What Goes On” (pubblicata come singolo) entra in una dimensione latino-americana e porta con sé quella fiamma bassa; “Pale Blue Eyes” definisce il tono dei Velvet – tenue e molto blu; “Beginning to See the Light” è più veloce e “divertente” nel suo conservare il ritmo dei primi V. U. e la voce dal tono sarcastico; “The Murder Mystery” è un esperimento di otto minuti che funziona a più livelli di quanto non facciano di solito le loro lunghe poesie rock – fa uso di alcune delle apparecchiature elettroniche più sofisticate e delle più geniali costruzioni liriche che io abbia mai sentito. Si potrebbe dire che con tutta la loro enfasi su amore e morte, sesso e violenza, l’approccio teatrale da fiori del male del rock, i Velvet Underground riescono dove i Doors si prendono tutto il successo e la pubblicità. Le canzoni e gli arrangiamenti strumentali di Lou Reed (avete mai sentito parlare di Lou Reed?) si addentrano molto più in profondità nei territori baudelaireani che Jim Morrison ha così a cuore, e senza quella zavorra di ego che trascina a fondo anche i migliori lavori dei Doors. Ci sono buone ragioni per il successo dei Velvet in questo genere – nessuno di loro è un virtuoso; non si preoccupano di cantare stonando e dissonando; amano le dissonanze non musicali e gli effetti sonori, e anche nei loro pezzi lenti hanno fiducia che l’insieme sia più grande della somma delle sue parti (L’esatto contrario del Rock Virtuoso in cui ogni membro si sente più grande del gruppo a cui appartiene: vedi la morte dei Cream). Le tessiture strumentali e le armonie vocali che ne risultano sono pulite, fresche, a volte banali, ma sempre sensuali e toccanti, non importa quanto “avanguardiste” o letterarie siano le referenze. I Velvet Underground, modellati sullo stampo della prospettiva musicale di Lou Reed, non hanno lo spasimo di Jim Morrison per la carta stampata e traducono coerentemente qualsiasi ispirazione “poetica” nel formato semplice e basilare della canzone rock.

Quest’ultimo album è per i Velvet Underground quello che John Wesley Harding e Nashville Skyline sono per Dylan. I parallelismi sono quasi al di là delle circostanze. Un tono generale di serenità e modestia e forza ritrovata che si sente nel Dylan attuale è anche in questa musica – “I’ve been freed/And I’ve been bound/And now I’m set free” definisce questo tema. “Jesus” fornisce la liturgia – tutto il testo di questa canzone di tre minuti consiste nella ripetizione dei versi “Jesus/Help me find my proper place/Help me in my weakness/Cause I’m falling out of grace/Jesus, Jesus“. Emozione spoglia, incantevole, senza retorica, con una potenza comunicata attraverso una sommessa insistenza su cambiamenti e sviluppi di un momento tale da poter essere solo suggeriti, evocati, estratti delicatamente dall’ascoltatore. I primi due album sconvolgono, l’ultimo risplende, brilla e raggiunge una calma interiore.

C’è una canzone di chiusura, “Afterhours“, che liricamente e nello spirito richiama il suono del brano finale di John Wesley Harding, “I’ll Be Your Baby Tonight“:

Se chiudi la porta

La notte potrebbe durare per sempre

Lascia fuori il bicchiere di vino

E brindiamo al mai più

Oh, un giorno so che qualcuno mi guarderà negli occhi

E dirà “ciao!”- sei la mia persona speciale

Ma se chiudi la porta

Non dovrò mai più rivedere il giorno.

Le differenze qui sono sia sottili che provocatorie – la canzone suona come se fosse cantata da un ragazzino di dodici anni o da una ninfetta pre-adolescente – ancora la stessa miscela bisessuale d’innocenza e sessualità libera. Un camp dolce e perverso – qualcosa che i Velvet hanno sempre amato. Forse è per questo che non hanno la popolarità di gruppi con lo stesso approccio. Le loro teste sono più vecchie, più stanche, hanno visto di più, hanno sperimentato di più dei freaks urbani appena arrivati; il loro disincanto ha trovato più spesso espressione letteraria – Rimbaud, Baudelaire, Burroughs. La loro musica, invece di essere frenata o fiaccata dal loro orientamento letterario, sfugge alla vaporosità intellettuale dei tentativi di poesia e teatro di Jim Morrison. I Velvet Underground producono una miscela rock di suoni e parole che è allo stesso tempo stanca del mondo come la vita di un prostituto di strada di New York e fresca come l’alba dell’era dell’Acquario.

I Velvet Underground sono probabilmente parenti stretti di ciò che Dylan avrebbe potuto creare se fosse rimasto in città.

L’ARTICOLO ORIGINALE

The Great Speckled Bird fu un giornale underground di controcultura con sede ad Atlanta, Georgia, dal 1968 al 1976. Fu fondato da attivisti della Nuova Sinistra della Emory University e da membri del Southern Student Organizing Committee, un ramo della SDS (Students for a Democratic Society). Il primo numero apparve l’8 marzo 1968, e nel giro di sei mesi pubblicava con cadenza settimanale. Nel 1970 era il terzo giornale settimanale più grande della Georgia, con una tiratura di 22.000 copie. Il giornale era affiliato al Liberation News Service, un collettivo di notizie di sinistra. L’ufficio di The Great Speckled Bird all’estremità nord di Piedmont Park fu incendiato e distrutto il 6 maggio 1972 a seguito della pubblicazione di una inchiesta sul sindaco di Atlanta.

Traduzione: Daniele Federici © LouReed.it

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