Bettye Kronstad: la verità su “Berlin”

Bettye Kronstadt, prima moglie di Lou Reed, ha rotto il silenzio che si era autoimposta e parla per la prima volta in 34 anni. La storia a cui “Berlin” è ispirato sarebbe quella sua e di sua madre. Bettye conobbe Lou nel 1968 e nel 1970 andarono a vivere insieme. Il matrimonio vero e proprio durò poco: dal gennaio al dicembre 1973.

“Ricordo ancora quella mattina quando mi svegliai e trovai Lewis in salotto accanto ad una bottiglia in pratica vuota di Johnnie Walker etichetta rossa. Erano le 08.30 del mattino e mi fece infuriare. In genere cominciava a bere, almeno, nel pomeriggio. Cominciai a fargli domande – in definitiva stava seduto di prima mattina con un bicchiere mezzo vuoto di Scotch e una bottiglia di Johnnie Walker consumata per tre quarti. Mi disse che aveva scritto “L’Album” durante la notte, che la RCA avrebbe finalmente avuto l’album per il quale faceva pressione da mesi affinché fosse completato. Poteva onorare il suo contratto poiché l’album successivo dopo “Transformer” faceva parte di un pacchetto per tenerlo in RCA e, all’epoca, “Transformer” non era ancora stato un grande guadagno per l’etichetta. Così gli mettevano pressione affinché rispettasse gli obblighi contrattuali.

Poi mi diede il suo taccuino e mi disse di leggere i testi, prese la sa chitarra e cominciò a cantare. La storia narrava di una coppia che si stava distruggendo e la donna dormiva con chiunque e i figli le erano stati portati via, sua FIGLIA in realtà, e poi si uccideva e l’uomo valuta la situazione e non gliene frega poi più di tanto … anzi per niente.

Il resto della storia è molto triste. Lou ed io avevamo saputo da poco che mia madre era morta, mia madre che viveva a New York e che era come un’estranea perché le ero stata portata via quand’ero una bambina. Quello era capitato a me, in effetti. Mia madre fu accusata di non prendersi cura di sua figlia, tra le altre cose, e perse la mia custodia perché non aveva abbastanza soldi da potersi permettere un avvocato.

Non era vero, naturalmente. Erano gli anni ’50. Lei era una ragazza madre di diciotto anni con solo un’educazione liceale e una bambina che non riusciva a seguire da sola. Aveva lasciato il proprio marito, mio padre, perché era violento; era un risultato delle ferite riportate nella Seconda Guerra Mondiale dove combatté nell’offensiva dell’Ardenne e ricevette due medaglie di Bronzo e due Cuori di Porpora al valore militare.

Immaginate il mio shock nel leggere i testi di “Berlin”, una storia su una donna alla quale sono portati via i bambini perché era una cattiva madre, che Lou aveva “scritto” durante la notte. Be’ lavorava a “Jim” e “Men of Good Fortune” già da un po’, è vero. Il resto fu comunque buttato giù in una notte.

Berlin (1973)
Berlin (1973)

Stare attorno a lui mi distruggeva, ma gli rimasi accanto perché gli avevo dato la mia parola e, all’epoca come ora, significava qualcosa per me. Ero una ventenne ma avevo sposato, divorziato ed ero tornata da Lou perché avevamo deciso insieme di provarci di nuovo. Poi promisi ai suoi manager che lo avrei tenuto d’occhio durante la registrazione di “Berlin”. Mi avevano detto che non sarebbe stato in grado di portarlo a termine se me ne fossi andata. Così rimasi fino a quando riuscii a sopportare la situazione.

Lou era diventato violento durante l’ultimo tour americano; quando lo portavo sul palco più “pulito” che potessi e poi entravo nella cabina delle luci e dirigevo quelle luci che avevo disegnato per il tour.

La seconda volta che mi picchiò mi fece un occhio nero. Allora glielo feci anch’io e allora smise di utilizzare i pugni. Tutti sapevano che era violento … abusava dell’alcol, abusava di droghe, abusava delle sue emozioni con me. Era anche incredibilmente autodistruttivo all’epoca.

Era però stato abbastanza intelligente da circondarsi di persone che gli hanno impedito di toccare il fondo, persone che avevano un interesse tangibile e determinato in lui tanto da proteggerlo da chiunque volesse fargli del male, se stesso compreso. Alla fine lui era anche l’unico responsabile e il mezzo con cui si guadagnavano i soldi. Aveva già nel suo curriculum i Velvet Underground e Andy Warhol.

Ho letto in riviste e giornali che avrei tentato di togliermi la vita durante la registrazione di “Berlin”. E’ una menzogna. Tutti quelli che erano presenti all’epoca sanno che non avrei mai fatto nulla del genere, e, infatti, non lo feci. Ero troppo presa dal tenere in riga Lewis affinché terminasse le registrazioni. A volte, quando le sessioni si protraevano e andavano per le lunghe e lui non era ancora tornato a casa, rimanevo in stanza in hotel o prendevo l’auto noleggiata fino allo St. James Park al tramonto e passeggiavo tra quei giardini meravigliosi per rimanere sana di mente.

Poi, quando tornava dallo studio o da qualsiasi altro posto dov’era stato dopo, non gli chiedevo neanche dove fosse stato. Non volevo saperlo e la realtà era che non m’interessava più. Avevo fatto il mio lavoro e mantenuto la mia parola, che non lo avrei mollato.

Infatti, rimasi per tutto il tour europeo fino a Parigi quando, la notte del suo grande show nella città, prima di partire per andare al teatro, a causa del suo comportamento verso di me lasciai l’albergo dopo aver scritto un messaggio al manager chiedendo un biglietto per tornare a casa a New York il giorno dopo. E così feci.

Non potevo più sopportarlo, stavo io stessa diventando pazza. Mentre tutti gli altri erano al concerto, io vagai per la città sotto la pioggia, piangendo, fino a quando un poliziotto parigino mi ha fermato sotto l’Arco di Trionfo e mi ha detto che sarei dovuta tornare in albergo a dormire un po’. Avevo ventiquattro anni. “Berlin” mi fece del male e, a dire la verità, se mi lascio andare alle emozioni, anche oggi a distanza di trenta anni fa ancora male.

Anche se fa male, nella misura in cui farebbe male a qualunque donna ascoltare una storia feroce sulla propria madre ripetuta ancora e ancora a tutto il mondo, o di come il proprio matrimonio sia andato in frantumi a causa di un marito violento, avevo promesso ai suoi manager e ANCHE a lui che non lo avrei lasciato e che gli sarei stata al fianco durante le registrazioni: così rimasi e mi presi cura di lui. Ero la sua poliziotta e la sua infermiera, due ruoli davvero innaturali per me, due costumi che ho dismesso con estrema facilità una volta che lo ebbi lasciato. Ero così sollevata, non c’era denaro che sarebbe mai stato sufficiente a ripagarmi: così chiesi solo il pagamento per il mio lavoro di direzione delle luci, che non ho mai ricevuto, e nient’altro.

Questo è ciò che accadde durante la registrazione di “Berlin” e dopo fino a quando lasciai Lou a Parigi. Durante la registrazione di “Berlin” mi arrivò anche la voce di come i musicisti fossero depressi perché tutti sembravano sapere che Lou stava scrivendo di noi. Quello che non sapevano è che Lewis stava scrivendo anche di mia madre e della mia infanzia triste a causa della Seconda Guerra Mondiale, perché mio padre era stato gravemente ferito in quella guerra.

Ora Lewis sta ricavando profitto da questa storia. La cosa buffa è che la storia vera è ancora più avvincente. Non ho mai detto nulla alla stampa, NON UNA SINGOLA PAROLA, perché ho due figlie che ora sono cresciute, ma quando ti difendi da Lou Reed ti difendi da un gigante dei media, una macchina mediatica ben oleata.

Non sono neanche mai stata una cameriera in un cocktail bar. Anche questa è una menzogna. Ho servito ai tavoli a pranzo per tre mesi durante l’università e poi fui licenziata. Non ero capace. Per oltre venticinque anni, comunque, ho insegnato inglese.

— Bettye Kronstad”

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